C’è un fenomeno nuovo che preoccupa l’economia e le imprese, la fuga dal posto di lavoro.
La Great Resignation, termine coniato da Anthony Klotz della Mays Business School del Texas, è un grido di allarme. Negli USA lo scorso anno oltre quattro milioni di lavoratori hanno lasciato le loro organizzazioni.
Il fenomeno però sembra interessare anche l’Europa, dove si osservano dati che destano qualche preoccupazione. Anche l’Italia ha registrato negli ultimi mesi del 2021 un numero significativo di persone che ha deciso di lasciare il lavoro.
Si tratta di un fatto che, per la sua complessità, andrà ulteriormente approfondito. Merita comunque grande attenzione anche come occasione per accrescere la consapevolezza sulla rilevanza del lavoro e della sua gestione.
Un disagio poliedrico
Cosa sta succedendo nelle organizzazioni e cosa spinge i lavoratori a fare queste scelte? Ci sono ricerche che supportano l’idea che il fenomeno possa essere interpretato come l’esito di un processo di ridefinizione delle priorità e di una rifocalizzazione dei valori da parte delle persone (Reconsideration). Le sue cause scatenanti sono, da un lato, la scoperta dei benefici collegati al flextime e flexplace associati alle new way of working e, dall’altro, l’insoddisfazione che si prova sui luoghi di lavoro. Questo trend, che le imprese e i manager più attenti avevano già colto, trova le sue radici ben prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria, come suggerisce un recente articolo di Harvard Business Review. Salute e benessere per i lavoratori stanno diventando molto importanti e ciò spinge la ricerca di nuovi equilibri tra lavoro e vita privata. Pandemia e remote working non hanno fatto altro che amplificare un disagio già avvertito dalle persone, velocizzandone la diffusione su scala globale.
Una nuova concezione del lavoro si fa strada tra le giovani generazioni
Sulla base dei dati disponibili, il fenomeno sembra coinvolgere maggiormente i lavoratori più giovani. Secondo una recente ricerca dell’Aidp il 70% del campione analizzato di chi si è dimesso volontariamente dalla propria azienda ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni. Anche un recente report di Randstad che ha rendicontato i risultati di interviste che hanno coinvolto 35 mila persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni lo conferma. L’idea che la vita personale sia più importante della carriera e che sia necessario effettuare un cambio di prospettiva sul ruolo del lavoro è dunque particolarmente vero per la Generazione Z e per i Millenials.
Il successo professionale e la retribuzione rimangono comunque importanti, ma non così tanto da giustificare l’idea che si possa continuare a lavorare in un ambiente considerato “ostile”. Tale qualificazione emerge da un dossier relativo ad un’indagine promossa da SGB Humangest con il contributo del Cirsis dell’Università di Pavia e condotta su un campione di mille laureandi e laureati.
Le nuove generazioni sono scettiche riguardo la fiducia che dovrebbe attraversare il contesto di lavoro, ambiente nel quale si aspettano di ricevere il giusto riconoscimento in termini di merito ma che guardano anche come a un luogo dove stare bene e in cui vivere un clima relazionale sano ed equilibrato. Si rafforza così la convinzione che il lavoro non può essere solo un mezzo di sostentamento, ma un’attività attraverso la quale realizzarsi come persone.
Che fare allora? Quali comportamenti possono adottare organizzazioni, manager e HR?
Per rispondere a queste domande ci offre spunti interessanti un altro dato che emerge da una ricerca del MTI di Boston. L’analisi proposta dallo studio individua alcune delle cause che possono «predire» le dimissioni. Al primo posto troviamo proprio la presenza di una «cultura tossica» nell’azienda. Tossicità intesa in chiave relazionale, fattore che inquina i rapporti con i propri colleghi e con i superiori. Un dato che fa a pugni con la crescente convinzione che la qualità della vita all’interno dell’organizzazione è questione centrale. Insomma, lavorare in un ambiente considerato tossico e ostile sta diventando sempre più insostenibile per le persone.
Le persone sono in cerca di un lavoro che dia «senso» alla loro esistenza. Per questo appare miope quella cultura manageriale, ancora diffusa e prevalente, che pensa di gestire e generare motivazione e performance attraverso la leva prioritaria del denaro. Sicuramente la ricompensa economica è importante, ma le persone nel lavoro cercano anche altro, cercano senso, socialità e «benessere organizzativo».
Daniel H. Pink in “Drive, cosa davvero guida la nostra motivazione” ci aiuta a comprendere meglio il punto. Secondo lo studioso ci sono tre fattori principali che agiscono sui livelli di motivazione: l’autonomia, che nasce dal bisogno umano di imprimere una direzione alla propria esistenza, la competenza e lo scopo, ossia poter collocare le nostre azioni all’interno di uno schema di senso più ampio.
Il fenomeno della Great Resignation suggerisce allora a imprenditori, manager e HR leader di riportare al centro del lavoro una visione antropologica diversa dell’uomo e dei suoi bisogni, il boom di dimissioni volontarie, specialmente negli USA, indica che il problema non riguarda solo il livello dei salari e gli incentivi economici. Riguarda anche e soprattutto la cultura di un’impresa che, stando ai dati della ricerca del MTI, incide più di dieci volte rispetto alla retribuzione.
Le ragioni che si celano dietro questa insofferenza indicano ai protagonisti del lavoro una direzione e al tempo stesso la sfida da accogliere: quella di rigenerare senso coinvolgendo i propri collaboratori con un «purpose» efficace, riconoscendo il loro contributo per farli sentire parte di un’organizzazione che valorizza contributi e potenzialità.
Tre aree per riorientare il lavoro di imprese, manager e funzioni HR
Se da un lato il fenomeno delle grandi dimissioni rappresenta un grave problema per l’economia e le imprese, dall’altro può essere visto anche come un’opportunità per ridisegnare il lavoro e la gestione delle persone. Lavorare per costruire una sana cultura d’impresa e pratiche di gestione delle persone sostenibili, lasciandosi guidare dalla ricerca del “benessere” nelle sue molteplici dimensioni, sono le linee guida che dovrebbero ispirare policy e comportamenti.
Ci sono almeno tre aree di lavoro su cui impegnarsi.
La prima è senz’altro governare la nuova complessità phygital, sapendo coniugare lavoro in presenza e lavoro a distanza. Riuscire a conciliare la produttività e i risultati con l’umanità che deve caratterizzare ogni processo organizzativo, trasmettere e riconoscere fiducia e autonomia ai propri collaboratori, fattori di engagement e commitment.
Le configurazioni delle new ways of working consentiranno di sperimentare equilibri diversi, all’interno dei quali vedremo prendere forma anche nuove leadership e stili di management. La sfida più grande, probabilmente, sarà riconoscere piena cittadinanza a soggettività plurime, alle articolate diversità che dovranno dialogare con istanze organizzative agitate da modelli di business nuovi in quest’epoca di transizione verso la sostenibilità.
La seconda area di lavoro riguarda il posto centrale che giocherà la capacità di ri-costruire il capitale relazionale messo a dura prova dal distanziamento fisico e dall’allentamento dei legami. Ri-costruire il capitale relazionale significa rigenerare reti sociali interrotte e ritessere senso di appartenenza con il filo del dialogo, della prossimità e della fiducia.
La terza area di lavoro, infine, è indicata dalla necessità di progettare un vero e proprio programma di ri-educazione alla gestione delle persone e degli stakeholder. Il disagio verso e nel lavoro che emerge chiede di mettere mano a un serio programma di investimento educativo, un vero e proprio wellbeing skilling program per capi e manager allenandoli non solo ad acquisire skill, ma soprattutto a cambiare mentalità.